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Garganuda: L’intervista con Andrea Fiorini Carbognin

Garganuda: L’intervista con Andrea Fiorini Carbognin

Abbiamo parlato con Andrea Fiorini Carbognin, il primo produttore ad ottenere la DOC Soave con un vino a fermentazione spontanea da agricoltura biodinamica. Con lui abbiamo parlato di come il vino ha influenzato la sua vita a partire dall’infanzia fino all’età adulta.
Andrea è l’emblema di come l’unione tra passione e duro lavoro possono trasformare un grande sogno in una bellissima realtà.

Raccontaci la tua prima edizione al “Soave Versus”

La mia prima edizione al “Soave Versus” nel 2016 (manifestazione dedicata ai produttori del Soave DOC) è stata a dir poco comico/drammatica. Ero la new entry, il dissidente, il libero pensatore, entrato nella grande famiglia dalla porta di servizio. Sono stato il primo produttore a utilizzare pratiche biodinamiche ad entrare nella DOC, e all’inizio le reazioni del pubblico non erano sempre delle più positive. È bello vedere che negli anni le conversioni al biologico e l’utilizzo delle fermentazioni spontanee nel territorio siano cresciute.

Come ti sei avvicinato al mondo del vino?

Nasco in provincia di Verona, ma ai confini con Vicenza. L’inflessione Vicentina non mi ha mai abbandonato, ma nel mio cuore Verona squadra, Hellas, e Verona città hanno tuttora un peso importante.
La mia gioventù la passo tra le colline Vulcaniche della Val d’ Alpone, dove Ciliegie e Uva la fanno, ancora oggi, da padrone.
Il vino in casa mia è sempre stata una costante: entrambi i nonni Luigi e Mario, avevano vigne, Luigi aveva un mezzo ettaro per i bisogni familiari, mentre per Mario, assieme agli animali nella stalla, l’uva era un mezzo di sostentamento per la famiglia.

Gli odori e il gusto del vino mi accompagnano da più di 40 anni.

Mio nonno Mario è morto nel ’91 e a tutti i figli venne offerto un pezzo di terra ma mio padre – che non aveva la vigna del sangue – rifiutò. Io ai tempi ero ancora troppo giovane e con una carriera appena iniziata all’interno delle Forze dell’Ordine e quindi non presi in considerazione l’idea di abbandonare tutto per tornare nei campi di famiglia a lavorare con l’uva.

Il legame col territorio

La terra è sempre stata dentro di me infatti fin da piccolo andavo sempre in campagna. Ad un certo punto della mia vita ho scoperto quanto fosse importante per me l’approccio al vino. Bianco. Bianchista.

Nel DNA è sempre stato GARGANEGA e lo è attualmente oggi più di ieri. Dalla terra al prodotto finale.

In circa 30 anni mi sono letteralmente bevuto di tutto, dando prevalenza ai vini del mio territorio infatti dal 2005 al 2008 ho vissuto nel centro di Soave.
Durante quel periodo mi sono addentrato in toto nella DOC scoprendo, ahimè, che dopo tutti quegli anni non riconoscevo più il “mio” vino.

Ad ogni nuovo calice di Garganega avvertivo una tecnica enologica che andava a sovrastare frutto e territorio, senza considerare l’uso smodato di legni invasivi o acidificanti durante le annate più difficili. È soprattutto per questa ragione che verso la fine della prima decade del 2000 ho deciso di lasciare Soave Centro e trasferirmi in città.

La mondanità della città mi ha avvicinato allo sfavillante mondo delle Bollicine ma, anche dopo dieci anni, tra tutti i metodi quelli classici rimangono la mia ultima scelta.
Se devo scegliere dei vini che abbiano della co2 preferisco sicuramente un pet-nat o un buon rifermentato italiano. Il mondo degli Champenoise non è mai riuscito a rapirmi, forse perché nella mia maturità ho capito quanto peso può avere l’etichetta sul vino stesso. Probabilmente anche perché, come i sommelier riconoscono i difetti nei vini, io col tempo mi divertivo a riconoscere le tecniche enologiche, come ad esempio i famosi attacchi frontali dati da dosi massicce di solforosa, oppure gusto sbilanciato sul limone citrico o meglio ancora quanto MCR è stato usato per accrescere il grado, o quale tipo di lievito per ottenere certi descrittori aromatici.

È sempre stato un gioco. Forse per questo sono totalmente staccato da quel mondo, soprattutto da quello dello Champagne.

Parlaci dell’incontro con Stefano Menti

Nel 2012 ho conosciuto Stefano Menti con le sue personali interpretazioni di Garganega. Ci troviamo a pochi km da Soave, per la precisione a Gambellara, qui il suolo è sempre vulcanico ma l’agricoltura è biodinamica.

Col passare del tempo ho ritrovato il MIO vino, quello che bevevo in gioventù e che avevo perso.

I vini di Stefano mi hanno insegnato cos’è l’energia o, come la chiamano in molti, la vibrazione e ho capito che certe sensazioni si percepiscono solo da una determinata tipologia di agricoltura.

Da lì è nata la mia idea di Soave. A fine 2014 presi in gestione da mio zio un vigneto piantato negli anni ‘60 dal nonno, e nel tempo libero iniziai la conversione. Il tutto da solo, lavorando a spalle senza trattore.

Nel 2016 nasceva il mio primo Soave, risultato della vendemmia 2015. Un Soave a fermentazione spontaneae non filtrato: insieme alla regia del Sig. Menti in cantina abbiamo dato alla luce un vino che rimarcava la naturalità del territorio e dell’Uva. Da quel giorno di cose ne sono cambiate molte, quei 3000 mq del nonno sono diventati oggi più di 2 ettari da zone e suoli diversi, ma sempre su quei vulcani che caratterizzano la nostra area, quei vulcani che io mi impegno di far trovare nelle mie bottiglie, liberi da orpelli dolciastri profumati, dato che la Garganega, fino a prova contraria, non è un vitigno aromatico.

Da due anni a questa parte abbiamo anche un piccolo appezzamento nella Valpolicella allargata, abbiamo voluto riproporre quel vino degli anni passati, quel vino rosso che le massaie portavano ai loro uomini nei campi per dissetarli d’estate, meglio ancora se dentro il ghiaccio. Interpretazioni e idee, che hanno dato vita a questo brand, tante volte messo in discussione per la propria fermezza, ma necessaria convinzione che la gente che consuma vino cerchi sempre di più la salubrità e la digeribilità.
Prima di essere un Ideatore di vino – non mi definisco vignaiolo per una forma di rispetto per chi lo è veramente – io sono un appassionato, un vero Wine Lover, come li definiscono oggi, una persona che non beve mai il proprio in quanto sono troppo curioso del vino degli altri, un eterno sognatore che tirandosi su le maniche ha fatto suo un progetto.

Sono cresciuto in campagna e anch’io come i miei vitigni ho radici nella terra.

Sono un forte sostenitore delle cose semplici e veritiere, non amo un vino perché è bello ma perché è buono.

Ultimamente noto che ci si focalizza molto più su come un vino appare più che su ciò che è e me ne dispiaccio. Vivo con distacco la spasmodica ricerca di like e a chi parla di vino con un linguaggio erudito per sentirsi importante in un contesto sociale che non lascia spazio all’ignoranza.

Dall’altro lato però, sono convinto che ognuno è libero di fare ciò che gli piace come gli piace; mi rimangono ancora molte domande ma preferisco darmi le risposte attraverso il duro lavoro sotto la pergola: ciò non mi tiene solo lontano da un mondo che ormai non mi appartiene più ma, allo stesso tempo, mi dà la possibilità di continuare a lavorare con il mio sogno.

I Vini di Garganuda





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By |2020-08-31T14:19:31+02:00agosto 31st, 2020|Interviste, Storie di produttori|0 Commenti

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